Giuseppe Berretta e Nino Martoglio

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Di  Santi Maria Randazzo

Proseguendo la pubblicazione di testi inediti o di conferenze tenute da Giuseppe Beretta, l’autore dei testi Ugo Saitta ed affermato critico dantesco a livello nazionale, già assistente alla Normale di Pisa, pubblichiamo il testo di una sua conferenza su Martoglio ed il teatro siciliano.

“ Tema di questo nostro incontro sono i rapporti tra Nino Martoglio e il teatro siciliano. Tutti sanno come il nome dell’autore di La Triplice Alleanza, di Civitoti in Pretura, di L’aria del continente sia caro ai catanesi, ai catanesi, almeno, delle generazioni immediatamente passate o, come la mia, che stanno per passare. E spesso i catanesi lamentano che il nome di Martoglio sia stato ignorato dalla storiografia letteraria e anche teatrale: in realtà solo in qualcuna delle opere più recenti esso appare citato frettolosamente e sempre come quello di un tardo epigono della scuola verista che ebbe la fortuna di porsi al servizio del teatro siciliano in un momento in cui questo potè avvalersi di grandissimi attori come Angelo Musco e come Giovanni Grasso. Io non vorrei attirarmi i fulmini di nessuno, ma devo confessare che non penso che, da un punto di vista strettamente letterario, Martoglio meriti gratificazione migliore: nessuno, mi pare, possa negare la sua stretta dipendenza stilistica e tematica dal romano Cesare Pascarella e dal napoletano Salvatore di Giacomo. Il torto che la storiografia ufficiale e noi stessi catanesi facciamo a Martoglio consiste invece nel dimenticare che di quel teatro siciliano, inteso come fatto puramente teatrale, di palcoscenico e di platea, di comunicazione e di interazione con il pubblico, di quel teatro siciliano, dicevo, e di quegli stessi celebri attori egli fu l’autore principale, il vero e proprio inventore. E’ evidente che quando qui parlo di teatro siciliano non intendo riferirmi genericamente al teatro di autori siciliani e neanche semplicemente a un teatro di autori siciliani e neanche semplicemente a un teatro in dialetto siciliano, esistente o, almeno, possibile in tutte le epoche. Intendo riferirmi a un preciso fenomeno storico, databile fra la fine del secolo scorso e l’inizio del nostro secolo, strettamente legato, appunto, all’atteggiamento verista ed esteso, più o meno, a tutte le regioni di Italia. Fu appunto in quell’epoca che venne manifestandosi sui palcoscenici di tutta Italia un teatro programmaticamente regionale, un teatro, cioè, che lucidamente si proponeva di recepire, di esprimere attraverso il dialetto e di rappresentare sulle scene lo specifico della mentalità, della psicologia, della struttura culturale di ciascuna regione. Di questi tentativi i più fecondi, i più duraturi, quelli che meglio si imposero alla attenzione nazionale furono senza dubbio il teatro napoletano degli Scorpetta, dei Viviani, che ancora oggi vive, trasformato da influssi e da intenzioni più attuali nell’opera di Edoardo De Filippo  e il teatro siciliano, possiamo ben dire, di Nino Martoglio. Ancora oggi, infatti, quando si parla di teatro siciliano non ci si riferisce soltanto a un repertorio composto prevalentemente da opere di Martoglio e, per il resto, in gran parte, di autori anch’essi catanesi, come Giuseppe Russo Giusti o Pippo Marchese o Giuseppe Macrì, che scrissero sotto l’influenza e, soprattutto, lo stimolo, più o meno immediato, del Martoglio. Ci si riferisce anche a un preciso modo di fare teatro che anche gli attori attuali più famosi come Turi Ferro o Umberto Spadaro adottano quando si accostano a quel repertorio e che è ancora fedele ad una tradizionale tecnica fatta di precisi schemi recitativi gestuali, mimici, di trucco facciale, di abbigliamento, che risale ai grandi attori come Musco, Grasso, la Bragaglia, la Aguglia, martellini, Pandolfini, la Anselmi, tutti attori che si formarono e, soprattutto, stilizzarono la loro recitazione sulle formazioni teatrali martogliane, sotto la sua guida e la sua regia, che furono sempre puntuali, minuziosissime. Se poi si pensa che anche a livello di coscienza teatrale nazionale, e del cinema e della televisione, quella tecnica recitativa, comprese le inflessioni dialettali catanesi, è stata ritenuta, almeno fino a qualche anno fa, come la espressione paradigmatica della sicilianità, non si può non riconoscere che tale modulo teatrale della psicologia isolana deve la sua esistenza, i suoi caratteri, la sua vitalità all’opera di scopritore di talenti, di mpresario, di suscitatore e organizzatore di energie, oltre che di autore e di regista, di Nino Martoglio e alla sua stessa visione delle caratteristiche etnico-psicologiche della sua gente. In questo senso Martoglio può essere indicato come il padre e Catania come l’ambiente di origine del teatro siciliano così definito. Di tale teatro qualcuno ha indicato il 1863 come l’anno di nascita. In quell’anno, come si sa, fu rappresentato per la prima volta dai due autori, Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca quel I Mafiusi da Vicaria che qualche anno fa Leonardo Sciascia ha voluto riproporci in stesura riveduta e aggiornata. Altri, invece, hanno cercato più nobili natali nella prima rappresentazione di Cavalleria Rusticana. Ma il primo dramma, I Mafiusi, rimase sena seguito e incapace di creare una tradizione se non a livello locale e popolarissimo. L’altro, Cavalleria Rusticana, al contrario, si inserì subito in un contesto teatrale e culturale italiano, anzi europeo: fu recitato per la prima volta nel 1884 a Torino ed ebbe ad interpreti Eleonora Duse; dopo qualche mese passò a Parigi. Si qualificò, insomma, subito come una delle massime espressioni del momento verista del teatro europeo e, a quel livello, fu presto travolto dll’avvento del teatro decadentista. Ma è ovvio che è impresa astratta cercare una precisa data di nascita: occorre invece individuare il momento e l’ambiente in cui una tradizione teatrale si stabilizza, dopo aver tradotto in schemi scenici, in tecnica di recitazione, in modelli teatrali duraturi la struttura culturale e psicologica di una precisa società che in essi si riconosce e, per ciò stesso, assicura loro vitale continuità. Certo Cavalleria Rusticana arrivò presto anche sui nostri palcoscenici popolari, diventò anzi col tempo uno degli schemi teatrali più esemplari in cui si riconosceva una precisa sensibilità locale, ma è indicativo che ciò sia avvenuto attraverso la mediazione di quella vitalissima matrice teatrale che era a quel tempo, a Catania, l’opera dei pupi. Nell’opera dei pupi è infatti da individuare il primo laboratorio, ricchissimo di iniziativa e di vitalità, in cui la sensibilità siciliana andava sperimentando in quegli anni i suoi moduli di comunicazione teatrale. E dall’opera dei pupi il Martoglio partì per disciplinare, formalizzare, canonizzare quella tecnica di espressione e i suoi contenuti. Da parecchi anni, ormai, i pochissimi superstiti pupari non hanno più una sede propria, vagano da un baraccone  improvvisato a un teatrino parrocchiale, di cui rimangono ospiti solo per qualche mese, oppure vivono, come fiori di serra, in funzione turistica, lontani dal loro pubblico naturale e, perciò, come privi di radici. Non pensano ad alcuna altra forma di attività teatrale, ad alcuna innovazione e si limitano a ripetere le storie, di cui da tempo non rinnovano più, né arricchiscono il repertorio.  Non c’è dubbio che quest’ultimo fenomeno ha conferito all’opera dei pupi, proprio nella fase del suo definitivo tramonto, una ulteriore suggestione. Le storie si sono irrimediabilmente fissate nei loro canovacci e sono diventate inviolabili, come arcane memorie storiche, hanno acquistato un carattere sacrale molto vicino all’origine stessa del fenomeno teatrale. Ma un tale irrigidimento, con la conseguente monotonia, ha contribuito forse ad accelerare la fine dell’opera.”

Nella foto, Giuseppe-Berretta-ritratto-assieme-al-regista-catanese-Ugo-Saitta

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